Il cuore tra le righe

Parole che aiutano nell’elaborazione del lutto

 

“Un povero quore con la q (malattia delle più rare)

andò da un medico a farsi visitare.

E’ grave? Mi consiglia di fare testamento?

“No, no, niente paura,

ho qui pronta per lei una bella cura”.

Difatti gli diede la vitamina C

e il cuore guarì.

(Gianni Rodari)

 

Negli anni Sessanta del secolo scorso, l’antropologo e psicoterapeuta statunitense Robert Levy condusse uno studio sull’isola di Tahiti per comprendere il motivo del tasso abnorme di suicidi dei suoi abitanti. Nessuno riusciva a spiegarsi il drammatico fenomeno che, puntualmente, si verificava sull’isola. Alla fine, egli scoprì qualcosa di incredibile: la cultura di Tahiti era dotata di un linguaggio ricco di parole minuziose e dettagliate per indicare il “dolore del corpo”, ma era totalmente sprovvista di parole per indicare il dolore dell’anima, dalla più semplice tristezza all’angoscia più intollerabile, al senso di colpa, alla rabbia. De facto, gli abitanti di Tahiti, di fronte a un male dell’anima, erano assolutamente impossibilitati a esprimerlo e ciò che rimaneva loro – non potendolo elaborare con alcuna parola – era togliersi la vita, sopraffatti dall’immensità del sentire inesprimibile [1].

Potenza della parola e della narrazione nell’elaborazione di un lutto

Le narrazioni – insieme ai riti (www.advar.it/news/rimanere-insieme/parliamo-dei-riti/) – sono strumenti meravigliosi di cui l’uomo può avvalersi per celebrare gli eventi, ostracizzarli, renderli comprensibili ad altri e farli propri. Il poter narrare sia eventi positivi sia drammatici soddisfa, infatti, molte esigenze: dare un nome, esprimendole, alle emozioni vissute e condividerle per aumentare il piacere o lenire la sofferenza; ricevere risposte che aiutano a collocare l’evento nel modo più oggettivo possibile; scambiare informazioni; creare legami interpersonali che aiutano ad andare avanti; intervenire sull’identità del singolo e la sua evoluzione. Vien da sé che “le speranze di successo, anche nell’elaborazione  di perdite e lutti, sono legate alle abilità narrative maturate in precedenza…” [2], siano esse espresse da parole o da un linguaggio non verbale.

Se dunque da una parte la narrazione è una delle azioni più comuni per l’essere umano, dall’altra è anche tra le più complesse: chi narra deve organizzare un pensiero chiaro che riordini le idee, i sentimenti, le intenzioni e poi trovare le parole giuste, gli atteggiamenti, le espressioni per farsi comprendere. In particolare, i vocaboli che noi scegliamo hanno un duplice valore: da una parte comunicano i nostri messaggi a chi ci ascolta, dall’altra parlano anche a noi medesimi che li pronunciamo. Ecco perché la narrazione nel tempo del lutto è così efficace e importante.

Il cuore ‘scordato’

Prendiamo, per esempio, la parola cuore, l’organo che scandisce, col suo ritmo, la vita stessa dell’essere umano e che viene messo così a dura prova nel tempo del lutto. Essa si nasconde in molte altre parole che usiamo quotidianamente, senza che noi lo sospettiamo.

In prenderci cura, per esempio. Secondo antichi etimologisti [3], la parola cura deriva dal latino cura e più anticamente da coera/coira che rinviavano a cor ‘cuore’. Cuore lo si trova anche nelle parole ricordare (lat. re-cor, portare di nuovo al cuore), coraggio (lat. coraticum, col cuore) e scordare (lat. ex-cor, spostare fuori dal cuore). Sono parole che le persone in lutto conoscono molto bene e che costellano il loro percorso di elaborazione.

Ecco allora che ricordare richiede un atto di vero coraggio, perché nelle prime fasi del lutto i ricordi felici, se in qualche modo riescono a farsi spazio tra tanta sofferenza, sono spesso più dolorosi dei ricordi legati al trauma, alla malattia e alla morte del proprio caro: essi urlano l’assenza del defunto e il rimpianto per ciò che si è perduto. “Da quando lui è morto, non riesco più a passare davanti alle sue fotografie. Così, ho deciso di rovesciarle tutte per non vederle”, mi confessò una volta Alda [4], durante un colloquio, mentre le scendevano lacrime silenziose. Lei aveva deciso di non ricordare, quindi di non portare al cuore.

Il rischio che corre, quindi, il dolente è di scordare (cioè di portare fuori dal cuore) quanto vissuto con il suo caro e di andare incontro, in un certo senso, a una sua seconda morte.

Riflettendo qualche tempo fa sul tema del ricordare e dello scordare sono arrivata a questa intuizione: l’etimo scordare ci rinvia anche ad un’altra accezione che sento significativa per chi soffre per una perdita e che ci proviene dal mondo della musica.

Uno strumento si dice scordato, quando perde la sua tonalità e non ha più armonia. Così avvalendoci del potere delle parole che pronunciamo e della narrazione che aiuta il dolente a ridare un senso al suo orizzonte, nello scordare egli non solo dimentica ma può perdere anche la sua musica interiore. Diventare consapevole del profondo significato di ciò che pronuncia può allora aiutarlo a intraprendere con coraggio un percorso di elaborazione del lutto – come quello offerto da Advar -, basato sulla narrazione, sul ricordare, sul rendere presente l’assente nel modo umano migliore possibile, così da ritrovare la propria accordatura.

Le parole, lette in profondità, sono davvero illuminanti. Esse ci parlano e ci aprono un orizzonte ricco di significati spesso inattesi che possono aiutarci nella vita, proprio come la vitamina C di Gianni Rodari.

Paola Fantin, équipe di ADVAR Rimanere Insieme

  

 

Bibliografia

Luigi Colusso, Il colloquio con le persone in lutto, Erickson 2012

Dizionario etimologico, www.etimo.it

Andrea Marcolongo, Alle fonti delle parole, Mondadori 2022

Alfredo Zuppiroli, Le trame della cura, Ed. Maria Margherita Bulgarini 2015

 

 

[1] Andrea Marcolongo, Alle fonti delle parole, Mondadori 2022, p. 12

[2] Luigi Colusso, Il colloquio con le persone in lutto, Erickson 2012, p. 49 ss.

[3] Dizionario etimologico, www.etimo.it

[4] Nome di fantasia, ndr.

Parliamo insieme di Lasciti Testamentari Solidali.


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