La solitudine dei superstiti

Advar, attraverso il servizio di Rimanere Insieme, si prende cura delle persone in lutto, di coloro che stanno soffrendo per la morte di un proprio caro, qualsiasi sia la causa della morte, anche per suicidio. In particolare Rimanere Insieme offre spazi di accoglienza e ascolto attraverso colloqui e gruppi di auto mutuo aiuto. In questo articolo la dott.ssa Caterina Bertelli dell’ équipe di Rimanere Insieme porta l’attenzione e riflette  sul vissuto dei “superstiti”.

I superstiti, così vengono definiti i famigliari di chi è morto per un gesto suicidario è un termine che  pone l’accento sulla complessità emotiva; in inglese  viene tradotto con survivors idioma spesso usato anche nella lingua italiana in riferimento alle grandi catastrofi come per esempio i terremoti, che creano grandi distruzioni. L’impatto che ha il suicidio nei famigliari e nella comunità è molto forte, genera molti interrogativi, toglie sicurezze rispetto a se stessi e rispetto ai propri ruoli sociali.

LA SOLITUDINE DEI SUPERSTITI

I superstiti dentro la reazione di shock alla notizia della morte della persona cara, iniziano ad avere pensieri che li collegano alla relazione con loro. Si interrogano su che cosa avrebbero dovuto vedere e non hanno visto, su che cosa avrebbero potuto fare e non hanno fatto e soprattutto sul legame affettivo fra loro: si mettono in discussione,  rispetto al suicida. Inizia a pervadere in loro il senso di colpa per essere vivi, per non essersi accorti che il proprio caro aveva una sofferenza così grande da decidere di togliersi la vita. Il dolore, il male di vivere del proprio caro morto suicida diventa il proprio  e sentono di essere solamente dei sopravvissuti.  A volte erano figli, mogli, mariti, compagni, fratelli già in carico al servizio pubblico o privato per un disagio psichico. Spesso invece nulla lasciava presagire tanto mal-essere. Nel racconto di molti superstiti, i cari che si sono suicidati stavano programmando la vita nella loro quotidianità: parlavano di vacanza, di laurearsi, di risistemare casa, di avere un figlio e così via. A volte alcuni, avevano parlato della loro angoscia ma come pensare che sarebbero potuti arrivare a compiere quel gesto? E allora al dolore per la perdita si aggiunge nei familiari, negli amici, nei superstiti in generale, il rimorso per non averli forse ascoltati abbastanza, di non aver intercettato il loro tormento interiore, di non aver detto loro anche solo, “ti voglio bene”.

La notizia della morte di una persona per suicidio non passa inosservata in una comunità; molti iniziano a chiedersi se conoscevano davvero la persona che si è suicidata, se aveva  dato “segnali” rispetto al desiderio di morire. Alcuni riescono a stare vicini alla famiglia, a supportarla anche solo con vicinanza silenziosa, provando un malessere che logora l’anima. Per altri invece è più facile puntare il dito verso la famiglia ponendo  domande quali “Non ti aveva detto nulla?, Ma non avevi visto che stava male?” Non ti aveva chiesto aiuto”? Nei famigliari questo risuona come sentimento di vergogna come  la dichiarazione di essere stati un cattivo genitore, un marito o una moglie fredda e distaccata, un fratello o una sorella menefreghista. Diventa un’etichetta che con molta difficoltà riusciranno a togliersi di dosso.

Il servizio di Rimanere Insieme accoglie i superstiti offrendo uno spazio e un tempo per depositare e condividere  il loro star-male.  Nei colloqui prima e nei gruppi di mutuo aiuto poi, ritorna spesso la domanda “Perché è successo? Perché lo ha fatto? . Emerge il bisogno primario di ogni essere umano di trovare risposte, di fare ordine dentro di sé. Vi è la necessità di capire cosa porta ad un gesto così estremo. E la risposta cade nel vuoto, rimane sospesa nell’oggi e anche nel futuro in quanto  fa ancora parte del mistero della vita e della scienza. Si possono fare ipotesi, ma nessuna potrà dare certezza e nessuna sarà soddisfacente. La letteratura medico scientifica afferma che vi è un rischio suicidario nelle persone con diagnosi di  depressione ad esempio, ma questo certo non basta per dare un senso a tale decisione. Anche tra le persone che vivono in condizioni di marginalità come chi si trova in carcere o  in una condizione di difficoltà economica ha un tasso di suicidio più alto rispetto al resto della popolazione. Ma tutti o quasi hanno legami affettivi, persone che li hanno in mente e nel cuore e che sarebbero disposti a star loro accanto per affrontare assieme il disagio esistenziale che li pervade.  Per chi resta vi è sempre una scelta diversa da quella decisa dal suicida. Per chi fa il gesto evidentemente no, non la sentiva dentro di sé.  Il superstite può sentirsi tradito dal proprio caro proprio per non averlo reso partecipe del proprio dolore, per non averlo considerato. Si sentono spettatori di una tragedia che in cuor loro si poteva evitare. Sentono di non aver avuto possibilità di prendere parte ad una storia di vita  in cui loro ancora ci credevano. Si chiedono se  davvero i loro cari suicidi li amavano come dicevano o facevano credere. E la lettera di saluto che a volte lasciano ha proprio anche  questa funzione per chi rimane. I superstiti cercano parole che permettano di capire il legame fra loro, capire se il perché del gesto è contaminato da una relazione insoddisfacente. Generalmente  ritrovano ben espresse, parole di bene, di desiderio di vita per loro. E questo li lascia sbigottiti. Scrivono  del loro disagio e del loro bisogno di trovare pace. Stanchi dell’angoscia che non permette loro di trovare serenità. Per il superstite la lettera letta e riletta ha poi  la funzione di trovare il “colpevole del gesto”, o meglio “il capro espiatorio”, diventa il primo passo per poter trovare una via di uscita al proprio dolore. Poco a poco, con il passare del tempo la lettera verrà messa da parte in quanto riusciranno a sentire dentro di sé quel bisogno di pace che rinsalda il legame con il proprio caro. Maturerà dentro di loro il pensiero dell’assenza del colpevole.

Il potere del gruppo che accoglie e rigenera

Dopo un percorso con colloqui individuali con un professionista di Rimanere Insieme, i famigliari, le persone che chiedono aiuto per un lutto in seguito ad un suicidio vengono invitate a partecipare al gruppo di auto mutuo aiuto. La funzione del gruppo è di accogliere per condividere il vissuto doloroso, per lasciarlo andare, per trovare il modo di riprendere a dare un senso alla propria vita nonostante  la perdita. Le narrazioni di dolore vengono spesso descritte attraverso analogie e metafore. Ad esempio una padre che aveva perso la giovane figlia diceva “Mi sento con un cappotto nero pesante addosso”; una moglie si sentiva con uno zaino sulle spalle che non le permetteva di guardare davanti a sé. I racconti diventano testimonianze di un desiderio di sentire normalizzate le proprie angosce, le proprie emozioni e i propri pensieri. Parlare ad altre persone che si  percepiscono “alla pari”, da cui ci si sente capiti e non giudicati  aiuta a scrollarsi di dosso la paura e più spesso la convinzione di essere inguardabili perché “colpevoli e sbagliati”. La forza che scaturisce nel senso di appartenenza al gruppo facilita il processo di guarigione inteso come una ferita che si rimargina. Una ferita che lascia il segno ma che non impedisce di essere protagonisti della propria vita. Con la partecipazione al gruppo si passa dal focus sull’evento tragico a ripensare alla persona amata, all’indissolubilità del legame, alle esperienze nutritive vissute assieme.  Chi partecipa al gruppo da più tempo diventa il guaritore ferito cioè colui che aiuta gli altri, i nuovi arrivati a trovare la forza per rialzarsi. Il gruppo diventa acceleratore di cambiamento e agevola così anche il processo di ritorno alla comunità: si ritorna a desiderare di progettare dentro contesti di vita presenti e futuri.

Dott.ssa Caterina Bertelli – ADVAR Rimanere Insieme

Parliamo insieme di Lasciti Testamentari Solidali.


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